Una volta terminato il lungo iter universitario in Psicologia clinica mi sono trovata di fronte alla scelta dell’ente dove poter svolgere il mio tirocinio post-lauream.
Interrogandomi sui miei interessi, decido di considerare l’idea di avvicinarmi ancora di più a quelle dure realtà a cui sono sottoposti bambini e adolescenti, spesso obbligati dal Tribunale dei Minorenni: il collocamento in casa-famiglia.
Durante la mia esperienza in una casa-famiglia di bambini e adolescenti entro in contatto con una moltitudine di storie che si intrecciano tra loro e con vite che si incrociano come fili di lana su un telaio.
Inizialmente mi sono trovata ad essere un oggetto di studio, il loro oggetto di studio: durante le giornate stavano li in quel salotto a parlare, attenti ad ogni mia singola reazione, quasi come se mi stessero leggendo dentro, percependo anche le emozioni che provavo.
Desideravo moltissimo poter parlare con ognuno di loro perché tutti racchiudevano la propria ricchezza interiore costituita dal proprio passato, dalle proprie speranze, dalla propria gioia ma anche e soprattutto dalla grande e incolmabile tristezza derivante dal senso di vuoto.
Desideravo ascoltarli, sostenerli il più possibile donando ogni mia possibile risorsa. Spesso riuscivo anche a lasciare un bel sorriso sulle loro labbra. Alcuni mi ringraziavano per esserci, per dedicare il tempo giocandoci insieme, per l’aiuto che fornivo nei compiti e nello studio, per le emozioni che potevano condividere finalmente con qualcuno. E poi c’era lui.
N. non aveva nessuna intenzione di entrare in relazione con me. E io ero spinta invece dal mio grande desiderio di parlarci, di sedermi li accanto al suo letto e considerare le sue emozioni.
N. ogni giorno che passava mi urlava addosso dicendo di andarmene, di lasciarlo stare. Arrivò anche a spintonarmi fino al punto di riuscire a farmi sentire inadeguata con lui.
Ed è proprio li che mi sbagliavo: N. mi stava insegnando una lezione di vita che avrei compreso poco tempo dopo. Non sempre i nostri stessi bisogni coincidono con quelli altrui e bisogna imparare a rispettare i tempi di tutti. Lui non mi stava allontanando davvero, bensì desiderava raccontarmi di avere il terrore di essere abbandonato ancora.
N. aveva subito molti abbandoni da parte della sua famiglia e l’unica educatrice a cui si era affezionato era mancata a causa di un incidente stradale. Lui stava comunicando a me che preferiva restare solo piuttosto che sentire ancora una volta sulla propria pelle e nel proprio cuore quel senso di vuoto.
Riuscii ad avvicinarmi a lui un bel pomeriggio quando N. si arrabbiò notando che condividevo il mio tempo con tutti gli altri ospiti della casa-famiglia e mi invitò a sedermi sul suo letto, parlandomi di sé e della propria storia per la prima volta.
E io mi sentivo pronta ad accogliere dentro di me le sue emozioni facendogli capire che sono sempre stata presente per lui e che ho solo deciso di rispettare i suoi tempi e i suoi desideri.
Quel pomeriggio si è chiuso con N. che in mezzo alle lacrime mi ha abbracciato spontaneamente. Due cuori così lontani, eppure così uniti in unico abbraccio.